Superflumina Opera in un atto |
Wordbook: | Salvatore Sciarrino | |
Characters: | la donna (mezzosoprano), un giovane / voce lontana (controtenore), un passante / un poliziotto (baritono), danzatore, altoparlanti degli annunzi (2 voci) | |
Instruments: | coro misto (SMsATBtB) / 3(=1+fl.a+fl.b).2(=1+c.i.).3(=1+2cl.b).2. / 2.2.2.-. / perc (= 4 esec.) 2pf / 4vl 2vla 4vc 2cb | |
Composition year: | 2010 | |
(c): | Rai Trade 2010 | |
Catalogue number: | RTC 1931 | |
Manuscripts and printed documents kept at the Paul Sacher Foundation in Basel> | ||
First performance: | 20.5.2011, Mannheim, Nationaltheater - Anna Radziejewska mezzosoprano, Thomas Lichtenecker controtenore, Artur Janda baritono, Thomas McManus danzatore, Ludovica Bello e Francesco Damiani voci, Chor und Orchester des Nationaltheaters Mannheim, Tilman Michael direttore del coro, Tito Ceccherini direttore, Andrea Schwalbach regia, Anne Neuser scene, Stephan von Wedel costumi, Regine Elzenheimer direttrice di produzione | |
Duration: | 1h30' | |
Le grandi stazioni ferroviarie
Per essenza luoghi di passaggio, di gigantesche migrazioni non più stagionali ma giornaliere, le stazioni furono costruite dopo secoli di carovane e di polvere. Avrebbero voluto proclamare la stabilità di un luogo di sosta e celebrare la civiltà, invece crebbero come edifici teocratici, così monumentali da dilatarsi sopra il singolo ed esaltarne la solitudine.
Dentro, anche la percezione risulta alterata. Rumori ingranditi dagli spazi, amplificati dalla lontananza. Sono rumori meccanici, stridori (da noi anche un intrico assordante di pubblicità selvaggia). E soprattutto voci, frantumi di parole, anonimi: accolti dal brusìo, non appena gridati hanno perso la singolarità dell'io. L'umanità diviene fiumana, elemento fluido e impersonale.
Gelata fantasmagoria di insegne rosso-blu. Le luci occultano muri anneriti e alzando gli occhi si intuiscono volte, colonne. Templi sovrumani, dove la marea si ritrae dai suoi relitti – improvvisamente le scopriamo abitate, le stazioni. Emerge qualcosa di sinistro, di sordido, in certe ore che formano i punti stagnanti della notte.
Gli esseri abbandonati galleggiano a lungo sopra orizzonti deserti, marmi levigati dai passi; o su isole dal suolo gommoso, quelle spiagge di gradini di tavoli di panche, dove si lasciano cadere disfatti dalla veglia. Intorno si irrigidiscono i vecchi, avvolti nel ronzìo dei neon, quasi crisalidi svuotate di ogni domani.
Qualcuno sopravvive ai limiti dell'esistere, fra le corsie dei morenti.
Non dell'indigenza diciamo qui, né della follia, quando si rompe il congegno. Peggio è la vita staccata dalla vita, la mente staccata. Cessa la luce, non la sofferenza; e forse non la dignità?
La solitudine non è che la superficie dell'abbandono. Esso provoca ferite ben più profonde, invisibili, di cui si son perse le tracce: il loro grido può risvegliarsi tragicamente in ciascuno di noi, in qualsiasi momento.
Da sempre mendicanti e vagabondi fanno parte del paesaggio urbano, la storia della pittura anzi li ostenta in primo piano. Oggi fingiamo di non vederli eppure sono dappertutto: sulle rive delle strade, in centro o in periferia, ai giardini (che rappresentano il simbolo distillato dell'ordine cosmico, proprio quello che la semplice presenza di un essere degradato mette in discussione).
La certezza della deriva, del disastro universale che questi naufraghi incarnano ai nostri occhi, è ciò che irrita di più e ne rende odioso il contatto. Non ci accusano, piuttosto azzerano la nostra umanità in quanto messaggeri della verità, della fine comune di fronte a cui siamo tutti uguali. Ecco perché non sopportiamo l'avanzare di ogni loro richiesta.
Quale esperienza scopre il fondo nascosto in noi, quale immagine illumina meglio il termine dove è destinato a frangersi tutto?
Non v'è dubbio: la discarica, la montagna di rifiuti fumanti. Essa proclama l'apocalisse come pure fa il suo fratello, l'inceneritore. A uno sguardo si mostra evidente ciò che comprenderemmo a gradi e vagamente, implicati come siamo in un lungo dispiegarsi, di tempo e di illusioni.
Anche una stazione s'imparenta a questi varchi della non vita. L'apocalisse fa capolino ovunque riesce ad annidarsi tra le mascelle del benessere. I rifiuti sono l'ombra della società, del corpo collettivo, e vanno occultati prima del disfacimento, come i cadaveri. Gli uomini si spostano sulla terra e una quantità di oggetti (che parrebbero essenza dell'inanimato) forma correnti che passano da un continente all'altro. E' una massa incredibile: di cose pregiate e di spazzatura. Di solito ricchi e poveri vivono su dimensioni parallele. Vi sono tuttavia punti dell'universo dove si mescolano, momenti in cui ricchi e poveri vengono all'unico fiume di corpi.
La fiumana rappresenta il viaggio umano in sé, di cui l'individuo diviene fibra infinitesima nel filo del tempo.
Ho spesso scritto sulla necessità della catastrofe in teatro, che scuota l'esistenza per ottenere lo svelamento ultimo. Non la doglia che partorisca il terribile dei libri sacri, con cui una volta Dio si sarebbe manifestato in modo spettacolare: l'umano senza morte e rinascita cosmica. Privi di futuro, se il non senso ancora sconvolge la coscienza di ognuno, non si dovrebbe instaurare fra noi una più profonda fratellanza, fuori dalle appartenenze di fede?
Una senza casa, un essere ferito d'amore, sarà la nostra protagonista. Sebbene estranea a se stessa,
pare mimetizzarsi nel suo ambiente, nel vuoto che precede la violenza. Nell'indossare oggi la sua identità lacerata, questa donna si esprime attraverso la più lirica delle espressioni, l'antico Cantico dei Cantici.
I frantumi di una notte, racchiusi fra un tramonto e l'alba.
Cerco un teatro riportato alle sue origini tragiche, quando non c'era azione ma racconto.
Ho trovato personaggi esposti a ogni sorta di crudeltà: la donna certo l'ha sorbita sino in fondo.
Sarebbe odioso portare in scena l'argomento con tutta la sua retorica, necessaria invece una prospettiva distaccata e ironica. Così soltanto possiamo entrare in un mondo parallelo al nostro, cogliere la crudeltà stessa riflessa nell'incoerenza del delirio.
Simmetricamente, l'opera è suddivisa in quattro quadri con due intermezzi. Al centro, tre canzoni. Qui la donna getta via il ritegno, ci introduce nella propria quotidianità, toccando a suo modo problemi attuali per l'umanità intera. Basti quello dei rifiuti, o delle risorse alimentari.
Il terzo quadro (Antifona) è un sogno interrotto, prende blandamente il posto della peripezia.
Il primo intermezzo intercala avvisi ferroviari alle sigle della pubblicità, in Italia dilagante anche sui binari. Nel secondo intermezzo giunge un canto lontano (forse un camionista fuori dalla stazione); prima della fine, gli spazi notturni turbati dagli altoparlanti, alla ricerca di un capomanovra introvabile.
A parte la Bibbia, non proprio di fonti letterarie possiamo parlare, bensì di riferimenti e omaggi: a Novalis e, principalmente a un agile romanzo, bello e sconnesso, di Elizabeth Smart, durante la cui lettura è nata l'idea del libretto; la prima versione risale al 1983, Quattro malinconie era il titolo di lavoro. Segni supremi di degrado inarrestabile, gli annunzi ai viaggiatori suonano burocratici e insensati, ma sono veri e sono stati raccolti nelle principali stazioni italiane tra il 2003 e il 2006.
Trailer "Superflumina" - Salvatore Sciarrino National Theater Mannheim [link] |